La Birra nell'età moderna
Sviluppo dell'industria birraria in Italia
Per tutto il medioevo e sino all'inizio dell'era moderna propriamente detta, in Italia
si era prodotta birra esclusivamante con metodi artigianali, per il raro consumo dei pochi
estimatori. Si trattava di produzioni discontinue, legate a fattori strettamente temporanei
e locali. La birra veniva vissuta, dal grande pubblico, come una bevanda tipica delle genti
del nord, da sempre invasori dell'italico suolo e, come tali, da sempre nemici.
Quella loro strana bibita, che nulla aveva a che vedere con il più noto ed apprezzato vino,
non poteva quindi non essere guardata come minimo con sospetto. La birra si importava per
lo più dall'Austria, retaggio della dominazione borbonica che influenza soprattutto il nord,
ed era legata ad un uso elitario, mentre i consumi popolari confluivano essenzialmente sul vino,
anche per ovvi motivi di minor costo e di più facile reperimento.
Dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso perché finalmente anche in Italia sorgano
le prime vere e proprie fabbriche, organizzate con moderni criteri di produzione industriale.
Sono ovviamente opera, per lo più, di intraprendenti industriali d'oltralpe, i quali vedono
in Italia prospettive commerciali di sicuro interesse, (i vari Wuhrer, Dreher, Paskowski,
Metzger, Caratch, Von Wunster, ecc.) ai quali presto fanno seguito anche commercianti italiani,
soprattutto fabbricanti di ghiaccio che vedono nella birra il naturale complemento della
loro attività, che si esplicava esclusivamente in estate.
In pochi lustri assistiamo ad un continuo frenetico fiorire di fabbriche di ogni tipo e
dimensione, sino ad arrivare, nel 1890, a ben 140 unità produttive, per un totale di 161.000
hl, ai quali vanno sommate le importazioni che raggiungono, in quell'anno, 50.738 hl, pari
a circa il 25% del consumo nazionale.
Nel breve volgere di un ventennio, diminuiscono di nove unità il numero delle fabbriche,
ma molte di queste crescono di dimensione e capacità imprenditoriale, in rapporto alla sempre
maggiore espansione dei consumi, grazie anche al più accessibile costo della bevanda che può
così raggiungere le fasce popolari. La produzione quadruplica e, nel 1910, arriva alla
considerevole cifra di ben 598.315 hl. Anche le importazioni salgono, seppure non nella
stessa percentuale, toccando 85.934 hl, pari al 13% del consumo nazionale.
Giungiamo così alla Grande Guerra, e, per tutto il periodo bellico, cessa pressoché la
produzione della bionda bevanda, essenzialmente per il fatto che la maggior parte del malto
occorrente per la fabbricazione doveva essere reperito all'estero, essendo ancora insufficiente,
oltre che di scarsa qualità, il malto di provenienza nazionale.
Non birra, ma vino bevevano i baldi fanti italiani quando si lanciavano all'assalto
dell'austro-ungarico esercito, il quale, a sua volta, non vino, ma bionda birra beveva! E le
rispettive bevande entravano a far parte delle rispettive invettive!
Con il finire della guerra ed il ritorno alla normalità, assistiamo ad una vera e propria
esplosione di consumi, dovuta, chissà? anche alla maggior conoscenza e divulgazione della birra,
apprezzata, fra tanta morte e distruzione, proprio sui campi di battaglia. Nel 1920 le
fabbriche italiane sono soltanto 58, ma la produzione arriva alla ragguardevole cifra di
1.157.024 hl, ai quali si aggiungono soltanto alcune centinaia di ettolitri di birra importata.
Crescono e si consolidano quelle aziende che, nel volgere di alcuni decenni, diventeranno
le grandi realtà industriali del settore, come la Wuhrer di Brescia, la Dreher di Trieste,
la Paskowski di Firenze e Roma, le Birrerie Meridionali di Napoli di proprietà dalla famiglia
Peroni, la Pedavena di Feltre, la Poretti di Iduno Olona, la Moretti di Udine, la Wunster
di Bergamo, alle quali fanno corollario una pletora di medio-piccole birrerie, come la Menabrea
di Biella, la Icnusa di Cagliari, la Cagnacci di Ancona, la Birra d'Abruzzo di Castel
di Sangro, la Dell'Orso & Sanvico di Perugia, la S.Giusto di Macerata, la Ghione &
Pogliani di Borgomanero, la Bosio & Caratsch di Torino, la F.lli Di Giacomo di Livorno,
la Brennero di Milano, la Raffo di Taranto, la Forst di Merano, e poi ancora la Leone,
la Sempione, la Cervisia, la Metzeger, ecc.
I consumi salgono ancora e, nel 1925, la produzione raggiunge 1.569.000 hl. Cresce anche
l'importazione, fermandosi però a poco più di 30.000 hl. I consumi procapite toccano i tre
litri e mezzo - molto distanti dai consumi del vino che superano invece i 150 litri - e fanno
ben sperare per il futuro, vista la rapidità con la quale aumentano di anno in anno.
A questo punto si scatena la reazione dei vinai che, di quel passo, temono di dover affrontare
a breve una crisi del loro settore. Riescono quindi a far approvare dal Governo leggi
protezionistiche a tutela dei loro interessi. Così, nel 1927, viene varata la legge Marescalchi
la quale, con l'apparente scopo di favorire l'agricoltura, ma con la recondita speranza di
peggiorare la qualità della birra, impone ai birrai l'immissione di un 15% di riso.
Le tecnologie dell'epoca non consentivano infatti di sfruttare appieno tutte le caratteristiche
positive del riso, e la qualità, anche se in minima parte, ne risentiva. Contemporaneamente si
inaspriscono le tasse con l'aggiunta di una imposta straordinaria di ben 40 lire per hl.
Ma non basta. La legge prevedeva inoltre una apposita licenza di vendita di 'bassa gradazione'
e ne limita lo smercio al dettaglio esclusivamente nei bar, trattorie e birrerie.
I 'vini e oli', categoria di esercizi molto diffusa all'epoca, non possono vendere al minuto,
ma solo all'ingrosso a casse intere. A rincarare la dose, in molti Comuni il 'dazio' viene
regolato con l'applicazione di fascette sul collo di ciascuna bottiglia, con immaginabili
intralci e perdite di tempo che fanno cadere l'interesse dei commercianti verso il prodotto.
L'effetto è immediato, ed i consumi scendono vorticosamente, non tanto per il livello
qualitativo, che rimane comunque accettabile, quanto per l'inevitabile levitazione dei
prezzi che pongono il prodotto fuori della portata delle masse popolari.
Quindi nel 1930 la produzione crolla a 672.325 hl mentre l'importazione rimane ancora
attestata sui 30.000. I consumi procapite scendono a 1,64 litri annui, con grande
soddisfazione di chi aveva voluto quella miope legge. Molte fabbriche chiudono o falliscono
e le restanti 45 soffrono grandi difficoltà e sono costrette a licenziare il personale per
poter sopravvivere in qualche modo. Non resta loro altro da fare che concentrare le produzioni.
Attraverso una azione concordata fra i più lungimiranti ed intraprendenti industriali,
si procede alla ripartizione degli spazi di mercato, rilevando, nel contempo, le aziende
in crisi e riducendo ulteriormente il numero dei centri di produzione che sono ora tutti
in mano alle più grandi e più solide famiglie birrarie.
Inevitabilmente, dopo un breve periodo di tregua, si scatena una feroce concorrenza della
quale approfittano i commercianti al dettaglio con richieste sempre più esose di sconti,
omaggi e premi, tanto che le birrerie si vedono costrette a consorziarsi in un patto di
rispetto - 1933 - che regola le comuni politiche di sconti e premi, e le cose migliorano,
se non altro perché smettono di dissanguarsi.
La ripresa dei consumi è comunque lentissima e, nel 1940, la produzione arriva appena a
814.638 hl, mentre crolla l'importazione, tutelata da dazi protettivi imposti dal Governo
per dare un contentino ai birrai. Il procapite, anche per effetto della crescita della
popolazione, scende comunque a 1,60 litri annui.
Di nuovo la guerra, e la produzione rallenta progressivamente, fintanto che tutte le
fabbriche, negli ultimi anni del conflitto, sono costrette a fermarsi per mancanza di materia
prima. Cessate le ostilità, gli industriali del settore birrario si leccano le ferite delle
loro aziende, uscite dal periodo bellico più o meno danneggiate, e riprendono faticosamente
l'attività. Dobbiamo comunque arrivare al 1950 per risalire alle quote produttive del 1925,
raggiungendo 1.548.800 hl ai quali si aggiungono circa 15.000 hl di birra importata, ed il
procapite arriva a 3,28 litri annui.
Sino al 1959 i consumi oscillano con alterne vicende, dovute esclusivamente all'andamento
climatico della stagione estiva, da 1.500.000 a 2.000.000 di hl, con l'importazione che non
supera il 2% dei consumi totali ed il procapite rimane contenuto fra i 3 ed i 4 litri anno.
Va detto comunque che sino a quegli anni la birra veniva bevuta in un arco di tempo che
andava da marzo a settembre; rientrava, nella mentalità corrente, fra le comuni bevande
dissetanti, come le bibite gassate, e come tale veniva consumata esclusivamente al banco.
Era addirittura opinione popolare che la preparazione avvenisse con chissà quali misteriosi
sciroppi, né più né meno come una aranciata od una gassosa. Nei mesi invernali quindi le
fabbriche chiudevano, dedicandosi a lavori di manutenzione e riordino delle strutture.
Dal 1960 finalmente la birra accede nel canale alimentare, dal quale può raggiungere
facilmente le famiglie, e così, nel volgere di un decennio, la produzione arriva a toccare
i sei milioni di ettolitri, con un procapite che supera undici litri e mezzo. Sino al 1975
la birra continua la sua avanzata trionfante sino ad arrivare ad otto milioni di ettolitri
di produzione, con oltre 570.000 hl di importazione, ed il procapite si attesta intorno
ai sedici litri. Finalmente i consumatori hanno compreso lo spirito della bevanda,
nobilitandola nella sua giusta dimensione, e tutti ormai sanno che si ricava dal malto
e che non ha nulla a che vedere con le bibite gassate. Gli industriali tirano un sospiro
di sollievo: euforicamente ottimisti, già fanno previsioni a lunga scadenza ritenendo che,
di quel passo, negli anni novanta sarà possibile superare i 40 litri, posizionandosi su
soddisfacenti medie europee, e c'è già chi pensa a potenziare le proprie strutture produttive.
Ma la congiuntura è alle porte, e quando scoppia virulenta nel 1975, colpisce inevitabilmente
anche il settore birrario nazionale, che perde un drammatico 19,5%, scendendo a 6.465.000 hl,
tornando alle stesse quote di cinque anni prima, mentre, stranamente, l'importazione cresce
del 40%, arrivando a toccare i 652.000 hl.
Come se non bastasse, il Governo decide di aumentare del 50% l'imposta di fabbricazione,
con un consistente balzo in avanti dei prezzi al pubblico, la qual cosa, in una economia di
recessione, rallenta considerevolmente la ripresa, che sarà lenta e faticosa, ed occorreranno
altri cinque anno per risalire ai sedici litri di consumo procapite.
Dagli anni ottanta in poi e sino ad oggi i consumi crescono costantemente di anno in anno;
di poco per volta, ma crescono sino ad arrivare ai 27 litri del 1995. Cresce la produzione
interna, ma cresce soprattutto l'importazione che passa dai 652.000 hl del 1975 ai 3.154.000
hl del 1994, mentre la produzione nazionale, nello stesso anno, arriva a poco più di dodici
milioni.
Le unità produttive sul territorio italiano sono attualmente 18, con oltre 3.500 dipendenti,
e fanno tutte parte, con esclusione della Forst ancora solidamente in mano alla stessa famiglia,
di grossi raggruppamenti internazionali.
Siamo comunque ben lungi dai consumi di birra delle altre nazioni europee; con i nostri 27
litri siamo all'ultimo posto della scala, preceduti dalla Francia (altro paese a forte
vocazione vitivinicola!) con 39.3 litri, dalla Grecia con 42 litri e dalla Spagna con 66.5
litri.
Ma il futuro fa ben sperare! Sempre nuovi consumatori si accostano ogni giorno a questa
splendida antichissima bevanda, in virtù delle sue caratteristiche di freschezza, bevibilità
e digeribilità, ma grazie soprattutto alla europeizzazione delle aziende di produzione che
ha fatto fare un grosso balzo in avanti alla qualità, offrendo ai consumatori una straordinaria
gamma di assortimento in grado di soddisfare i palati più esigenti.